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Due storie e un test per iniziare a cambiare

cambiamento elefante incatenato

cambiamento elefante incatenato

L’ELEFANTE INCATENATO

Quando ero piccolo adoravo il circo, mi piacevano soprattutto gli animali. Ero attratto in particolar modo dall’elefante, che, come scoprii più tardi, era l’animale preferito da tanti bambini. Durante lo spettacolo quel bestione dava mostra di una stazza e di una forza davvero fuori dal comune, ma dopo il suo numero, e fino a un momento prima di entrare in scena, l’elefante era sempre legato a un paletto conficcato nel suolo, con una catena che gli imprigionava una delle zampe.

Eppure, il paletto era un minuscolo pezzo di legno che affondava nel terreno soltanto per pochi centimetri. E anche se la catena (Jeorge Bucay, Lascia che ti racconti. Storie per imparare a vivere, Rizzoli, Milano 2004)era grossa e robusta, mi pareva ovvio che un animale in grado di sradicare un albero potesse liberarsi facilmente da quel paletto e fuggire.

Era davvero un bel mistero.

Che cosa lo teneva legato, allora?

Perché non scappava?

Quando avevo cinque o sei anni nutrivo ancora fiducia nella saggezza dei grandi. Allora chiesi al mio maestro, a mio padre e a uno zio di risolvere il mistero dell’elefante. Qualcuno di loro mi spiegò che l’elefante non scappava perché era ammaestrato.

Allora posi la domanda ovvia: “Se è ammaestrato, perché lo incatenano?”

Non ricordo di avere ricevuto nessuna risposta coerente. Con il passare del tempo dimenticai il mistero dell’elefante e del paletto, e ci pensavo soltanto quando m’imbattevo in altre persone che si erano poste la stessa mia domanda.

Per caso, qualche anno fa ho scoperto che qualcuno era stato abbastanza saggio da trovare la risposta: l’elefante del circo non scappa perché è stato legato a un paletto simile fin da quando era molto, molto piccolo.

Chiusi gli occhi e immaginai l’elefantino indifeso, appena nato, legato al paletto. Sono sicuro che, allora, l’elefantino abbia provato a spingere e a tirare, sudando nel tentativo di liberarsi.

Ma nonostante gli sforzi non ci riusciva perché quel paletto era troppo saldo per lui. Lo vedevo addormentarsi sfinito, e il giorno dopo e quello dopo ancora.

Finché un giorno, un giorno terribile per lui, l’animale si rassegnò al proprio destino. L’elefante enorme e possente che vediamo al circo non scappa perché, poveretto, crede di non poterlo fare. Ha impresso il ricordo della propria impotenza, sperimentata subito dopo la nascita. E la cosa peggiore è che non è mai più tornato con la mente a quel ricordo. E non ha mai più messo alla prova la sua forza, mai più…

(Jeorge Bucay, Lascia che ti racconti. Storie per imparare a vivere, Rizzoli, Milano 2004)

Siamo un pò tutti elefanti

Chi più, chi meno, a mio parere, vive con qualche “paletto” che lo tiene incatenato e che non gli permette di realizzarsi pienamente. Cresciamo e ci convinciamo ciecamente di non essere in grado di superare determinati problemi, di non essere capaci, all’altezza o ancora meritevoli di serenità ed equilibrio.

Chi è in lotta perenne col cibo vive spesso nella convinzione di essere un fallito, una persona debole, incapace di controllare un qualcosa che molti altri, invece, sono in grado di fare. Questi pensieri finiscono col creare emozioni e sentimenti di rabbia, tristezza, apatia, vergogna. Questo corollario di emozioni, a loro volta, influenza il comportamento della persona, la quale, finisce con l’assumere un atteggiamento passivo e a lasciarsi andare a comportamenti disfunzionali e malsani (abbuffate, alternanza abbuffate-digiuno o diete drastiche ecc…). E’ possibile uscire da questo stato di passività?

L’asino nel pozzo

agire per cambiare

La storia dell’asino nel pozzo

Un giorno l’asino di un contadino cadde in un pozzo. Non si era fatto male, ma non poteva più uscire. Il povero animale, disperato, continuò a ragliare sonoramente per ore. Il contadino era straziato dai lamenti dell’asino, voleva salvarlo e cercò in tutti i modi di tirarlo fuori ma dopo inutili tentativi, si rassegnò e prese una decisione crudele.

Poiché l’asino era ormai molto vecchio e non serviva più a nulla e poiché il pozzo era ormai secco e in qualche modo bisognava chiuderlo, chiese aiuto agli altri contadini del villaggio per ricoprire di terra il pozzo. Il povero asino imprigionato, al rumore delle palate e alle zolle di terra che gli piovevano dal cielo capì le intenzioni degli esseri umani e scoppiò in un pianto irrefrenabile. Poi, con gran sorpresa di tutti, dopo un certo numero di palate di terra, l’asino rimase quieto.

Passò del tempo, nessuno aveva il coraggio di guardare nel pozzo mentre continuavano a gettare la terra.

Finalmente il contadino guardò nel pozzo e rimase sorpreso per quello che vide. Ad ogni palata di terra che gli cadeva addosso, l’asino se ne liberava, scrollandosela dalla groppa, facendola cadere e salendoci sopra. Man mano che i contadini gettavano le zolle di terra, saliva sempre di più e si avvicinava al bordo del pozzo.

Zolla dopo zolla, gradino dopo gradino l’asino riuscì ad uscire dal pozzo con un balzo e cominciò a trottare felice.

Morale della favola: agire per cambiare

Questa storia sufi, a mio parere, è la dimostrazione del fatto che anche quando viviamo un momento difficile, possiamo essere noi i protagonisti attivi del cambiamento. L’asino aveva, infatti, di fronte a sé due opzioni: farsi sommergere dalla terra e soccombere, oppure, trovare un modo per salvarsi e “risalire”.  E lo ha fatto proprio, utilizzando a suo favore, ciò che avrebbe potuto ucciderlo.

Quando attraversiamo dei periodi complicati, o ancora, ci rendiamo conto di essere vittime di un personale atteggiamento disfunzionale (abbuffarsi, evitare di fare attività fisica, seguire un regime alimentare sano…), la nostra prima reazione, in genere, è quella di assumere una visione pessimistica: “è inutile…andrà sempre così”; “non posso farci niente”. Ciò che facciamo, dunque, è accettare passivamente questa condizione e tra frustrazione e impotenza, ci facciamo “sotterrare” dagli eventi e dal nostro non-agire. Eppure, proprio come l’asino, siamo noi a poter fare la differenza.

Chi ha problemi col cibo, solitamente, tende a vivere questa condizione di “disfattismo”, magari pensa che l’unica soluzione, per assurdo, sarebbe quella di vivere in un mondo dove l’essere umano non debba più usare il cibo per nutrirsi!

Ma, ahimè, non è così!

Solo cambiando prospettiva e imparando ad agire in prima persona il cambiamento, possiamo fare come l’asino e usare strategicamente anche quello che ci sembra negativo e rendere il “nemico un nostro amico”.

E tu ti rivedi più nell’elefante o nell’asino? Fai un test per scoprirlo!

Test: Misura il tuo grado di responsabilitàI due animali proposti, rappresentano due diverse modalità di approcciarsi alla vita e agli ostacoli che incontriamo nella nostra quotidianità.

Ciascuno di noi, tendenzialmente o sente di essere responsabile delle proprie azioni e dei propri risultati (l’asino), oppure, si lascia trasportare dagli eventi, attribuendo l’esito positivo o meno degli eventi, al caso, al fato, al mondo, finendo con l’assumere un atteggiamento passivo (l’elefante).

Pensi che i tuoi successi siano il risultato diretto dei tuoi sforzi o, forse, è solo fortuna? In psicologia questo atteggiamento viene definito locus of control.

Il locus of control – interno (“sono io ad avere il controllo della mia vita”) o esterno (“tutto dipende da ciò che succede intorno a me”) – esercita un’influenza nella nostra vita, dal momento che definisce il nostro comportamento, le nostre reazioni, la nostra motivazione e molto altro ancora.

Le persone con un locus of control interno tendono ad essere più intraprendenti e ad avere più successo delle persone con un locus of control esterno. Lo svantaggio di un locus interno è che, di fronte ad un insuccesso anche in situazioni che sono al di fuori del proprio controllo, si assiste ad un’eccessiva tendenza a colpevolizzarsi e a sperimentare vissuti di ansia e depressione. D’altra parte le persone con locus of control esterno, tendono ad essere demotivate, incolpano gli altri e il senso di impotenza che provano li conduce a sentirsi estremamente infelici.

E’ il momento di fare un test e vedere da che parte stai quando si parla di locus of control. Cerca di essere il/la più sincero/a possibile.

Valuta ogni singola affermazione in base al tuo grado di accordo o disaccordo con quanto riportato.

Riuscire a trovare un equilibrio tra le due modalità di comportamento rappresenta un primo passo utile per accettare e affrontare le sfide della vita e soprattutto per chi desidera trovare o ri-trovare un rapporto equilibrato col cibo e con il proprio corpo.

Inizia il test

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